Capitolo Primo
L’evoluzione legislativa dei consorzi e delle aree industriali
1.1 L’evoluzione e le motivazioni della legislazione statale sui consorzi Industriali dell’intervento nel Mezzogiorno
Immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale, si manifesta nel paese una volontà politica di interventi per lo sviluppo industriale nel Mezzogiorno.
Tali interventi si fondano sulla predisposizione di un complesso di iniziative pubbliche straordinarie, coordinate in un piano organico poliennale.
Sin dalla prima fase, (quella degli anni ’50, della pre industrializzazione), l’intervento a favore del Mezzogiorno si fonda sulla istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, quale strumento d’intervento straordinario, oltre che sullo stanziamento di ingenti fondi per l’attuazione coordinata delle misure operative.
Il primo piano poliennale era teso a realizzare il complesso delle infrastrutture per lo sviluppo sia agricolo che industriale del Mezzogiorno, attraverso un vasto programma di opere pubbliche (acquedotti, fognature, rete ferroviaria, ecc…) prevedendo inoltre agevolazioni ed erogazione di contributi, oltre ai finanziamenti alle iniziative interessate.[1]
Tale intervento viene identificato con il c.d. Primo tempo, che ha inizio proprio con la legge del 10/08/1950, n. 646, istitutiva della Cassa per il Mezzogiorno.
In base a tale orientamento venivano fissate le finalità istituzionali della Cassa onde l’intervento straordinario mirava sia alla creazione delle infrastrutture e del capitale fisso sociale, al fine di provocare uno sviluppo autopropulsivo, ed utilizzare gli strumenti classici delle esenzioni, contributi e finanziamenti, che, in definitiva si limitavano ad offrire solo un complesso coordinato di agevolazioni per le singole infrastrutture industriali.
Era infatti opinione diffusa che lo sviluppo di una regione sottosviluppata dipendesse dalla convenienza che un imprenditore privato aveva ad investire, per cui il compito dello Stato era quello di promuovere queste opportunità, allestendo le infrastrutture necessarie al fine di rendere competitivi, rispetto alle altre regioni, i costi d’impianto e di funzionamento delle industrie.
Una simile impostazione mostrò, negli anni immediatamente successivi, evidenti segni di fallimento, non solo per la dispersione degli interventi infrastrutturali che si erano verificati in assenza di un coordinamento delle iniziative e di una vera e propria programmazione, ma anche per l’esigenza evidente di superare la prevalente funzionalizzazione della maggior parte delle opere realizzate per l’agricoltura (oltre che destinate alla pre-industrializzazione): Il tutto in funzione di un decollo delle regioni meridionali, che consideravano prioritario lo sviluppo dell’agricoltura.
Ed ecco che il c.d. secondo tempo, dell’intervento straordinario trova nello “schema Vanoni” e nella scelta dell’industrializzazione del Mezzogiorno la sua linea ispiratrice, i cui schemi legislativi portanti si riscontrano in particolare nelle leggi 29/07/1957, n. 634, nella legge 18/07/1959, n. 5555 e nella legge 20/09/1962, n. 1462.
Con il c.d. “schema Vanoni” si assiste ad una chiara trasformazione dell’intervento dello Stato e della sua funzione della spesa pubblica, non più orientati verso uno sviluppo indiscriminato delle imprese e non “indirizzato”, in funzione dell’aumento del prodotto netto e dell’allargamento della base produttiva.
Si avverte, insomma la necessità di adottare agevolazioni orientate al perseguimento di ben determinati obbiettivi, fra cui: l’assorbimento della forza lavoro disoccupata o sottoccupata, l’incremento della produttività e l’industrializzazione del Mezzogiorno, superando il tipo di intervento precedente rivolto prevalentemente allo sviluppo dell’agricoltura; la c.d. pre industrializzazione (cioè la creazione dei prerequisiti funzionali per un eventuale futuro sviluppo industriale) al fine di superare un sistema parzialmente correttivo delle tendenze di sviluppo e inadeguato a risolvere i problemi dello sviluppo nel Mezzogiorno.[2]
Si prospetta, cosi, la necessità di un intervento dello Stato volto a favorire direttamente l’industrializzazione del Sud.
La politica meridionalistica tende a diventare politica di localizzazione industriale nel Mezzogiorno, modificando il processo di allocazione degli interventi con l’introduzione di agevolazioni di tipo finanziario (incentivi creditizi e contributi a fondo perduto) fiscale e infrastrutturale, tale da invogliare gli investitori privati a destinare i loro investimenti nel Mezzogiorno.
La stessa legge n. 634/57 introduceva l’obbligo per le imprese e per gli Enti pubblici di riservare al Mezzogiorno una quota dei loro investimenti globali, prevedendo un tipo di intervento ancora più diretto.
Ed ecco che il ruolo dello Stato non è più esterno, come nel caso del c.d. “protezionismo liberale”[3], ma neppure di mediazione di tipo compensativo come era stato (nel c.d. primo tempo) nella prima fase dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno.
Ne deriva un ruolo di mediazione orientata al perseguimento di particolari obbiettivi di tipo localizzativo nel quadro di progressione degli ambiti di intervento dello Stato, che si realizza con riferimento all’intervento per il Mezzogiorno nella formula di passaggio dallo Stato costruttore (primo tempo della politica meridionalistica), allo Stato-finanziatore e allo Stato-imprenditore.
In tale contesto la legge 634/57, accanto agli strumenti di tipo agevolativo, prevede dei “soggetti apparato”, cui viene attribuito il compito di erogare e/o gestire gli ausili finanziari (Cassa per il Mezzogiorno, Istituti di Credito Speciale, Partecipazione Statale, ecc…) in modo più o meno stabile, a seconda dei tipi d’intervento o in relazione all’ambito territoriale in cui si inserisce l’intervento stesso.[4]
Uno di questi “soggetti apparato”, previsti dalla L. 634/57, sono proprio i Consorzi per le aree di sviluppo industriale.
1.2 L’infrastruttura industriale
Per infrastruttura industriale si intende l’insieme di tutte quelle opere di attrezzatura industriale (allacciamenti stradali e ferroviari, fognature, nonché di tutte le iniziative ritenute utili per lo sviluppo industriale della zona di cui all’art. 21 della legge n°634/57, che, in base alla cd. “teoria delle economie esterne”[5] doveva essere in grado di eliminare i fattori negativi (le cd. diseconomie), che rendevano eccessivamente gravoso per un’impresa l’insediamento in regioni, in larga misura meridionali, che di tali strutture, erano fortemente carenti: al punto che tali proprie siffatte carenze secondo la prevalente teoria, avevano creato il profondo divario di sviluppo diseguale tra il Nord e il Sud dell’Italia.[6]
In fase di inizializzazione dei numerosi compiti assegnati ai Consorzi dalla legge istitutiva, per poter rimuovere le oggettive difficoltà che si frapponevano ad un organico processo di industrializzazione, la L. n. 1462/62, all’art. 3, prevedeva l’assunzione a carico della Cassa per il Mezzogiorno della spesa occorrente per le opere infrastrutturali eseguite dai Consorzi per le aree e i nuclei industriali nel Mezzogiorno, sino ad un massima dell’85% della, spesa, ivi compresi gli oneri afferenti alle relative espropriazioni; e poteva altresì concedere agli stessi Consorzi, un contributo sino al 5O% della spesa per la costruzione di rustici industriali.
Dai suddetti finanziamenti restano escluse le spese di espropriazione degli immobili da cedere alle imprese industriali.
La Cassa per il Mezzogiorno, inoltre, poteva assumere a proprio carico la spesa occorrente per la redazione dei Piani Regolatori dei Consorzi stessi. La legge n°1462/62, autorizzava, altresì, la Cassa a concedere contributi per la costruzione di case popolari destinate all’alloggio dei lavoratori addetti alle industrie situate nelle aree e nei nuclei industriali.
La concessione di queste due ultime agevolazioni erano subordinate al rispetto dei criteri e delle modalità fissati nel c.d. “Piano di coordinamento “.
1.3. Origini e finalità delle A.S.I. (Aree di Sviluppo Industriali)
L’adozione delle aree di sviluppo industriali, quale strumento della politica d’intervento straordinario nel Mezzogiorno d’Italia, risale alla fine degli anni ‘50.
Nel 1957, infatti, con la n°634, che proroga e rifinanzia la Cassa per il Mezzogiorno (nata con la L. 646/50), comincia la nuova fase dell’intervento straordinario, orientata ad una politica di industrializzazione e di sviluppo delle infrastrutture.
Nella nuova legge sull’intervento straordinario nel Mezzogiorno, la L. n. 64/86, viene definito il concetto di “aree di sviluppo industriali” con le quali “promuovere ed operare tutte quelle trasformazioni ambientali atte a potenziare e a sviluppare le forze di attrazione ubicazionali e, quindi, a costituire delle aree di concentrazione geografica e di gravitazione degli sviluppi industriali, rispetto all’intero territorio meridionale “.
Tali aree di sviluppo industriale potevano articolarsi in più “nuclei industriali’
Alla individuazione e definizione concreta di tali aree erano preposti i Consorzi, costituiti da più Enti comunali.
L’approntamento delle infrastrutture generali era a carico dei Consorzi stessi, che potevano comunque beneficiare di un contributo da parte della Cassa per il Mezzogiorno, di entità non superiore alla metà della spesa corrente. Alle imprese localizzatesi nelle aree, infatti, erano concessi vari incentivi sia di tipo creditizio che fiscale.
Ma la possibilità di concedere particolari agevolazioni anche alle piccole e medio imprese, che si localizzavano al di fuori delle aree di industrializzazione costituiva, però, una evidente contraddizione del dettato legislativo e di fatto, ciò, aumentava l’incentivo alla localizzazione fuori dalle aree dei Consorzi.
Nonostante, nella realizzazione della prima fase dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno (pre-industrializzazione), sia stato perseguito l’obiettivo di contenere il più possibile la disoccupazione, di governare i flussi migratori e di assorbire la forza lavoro espulsa dal settore agricolo, oramai in fase di fisiologico ridimensionamento occupazionale, non si è riusciti a perseguire appieno l’obiettivo di realizzare le condizioni più congrue per il processo di industrializzazione autonomo delle regioni meridionali, sulla base di adeguate economie esterne, che avrebbero dovuto, come già detto, garantire condizioni di indifferenza territoriale, non processi di localizzazione industriale.
Invece con la legge per il Mezzogiorno, la L. n. 717/65, si è proceduto ad una riformulazione della politica di intervento straordinario.
Con essa viene rilanciato il ruolo dei Consorzi e delle A.S.I. attraverso un aumento dei finanziamenti, che possono raggiungere fino all’85% delle spese per le infrastrutture consortili.
L’obiettivo da perseguire, era quello di una concentrazione dell’intervento della Cassa per il Mezzogiorno sulle aree industriali, suscettibile di più rapido sviluppo, coerentemente con la scelta strategica dello sviluppo territorialmente concentrato
Sono gli anni in cui viene elaborandosi la strategia meridionalistica dello sviluppo concentrato, cd. “per poli “, assumendosi che i nuovi insediamenti manifatturieri, concentrati in un ristretto ambito geografico, avrebbero progressivamente diffuso, in tutto il territorio Meridionale, dinamiche positive di crescita, sia in termini di domanda che in termini di offerta di beni.
Le A.S.I. nascono e si sviluppano in tutto il Mezzogiorno per rispondere ad una scelta di localizzazione programmata degli insediamenti industriali:[7]
a) Per sopperire alle diseconomie esterne presenti nel territorio meridionale che, anche a causa della mancata industrializzazione manifestava notevoli carenze infrastrutturali e vuoti funzionali notevoli, si sceglie di dotare ciascuna area o nucleo d’industrializzazione di una attrezzatura minima funzionale;
b) Per soddisfare le esigenze insediative all’industria di origine esterna (soprattutto alle imprese del Centro-Nord) si adottò un criterio molto elastico, in modo che l’attivazione di impianti, più che di imprese (in quanto i centri direzionali rimangono al Nord) potesse far si che il fabbisogno di connessioni funzionali con l’ambiente espresso dalle nuove presenze produttive, risultasse limitato di spessore. La conseguente domanda e quindi la predisposizione di una infrastrutturazione primaria (approvvigionamento idrico ed elettrico, opere di difesa idraulica, raccolta acque reflue, ecc...) fa perno rispetto ad esigenze di maggiore contenuto professionale e di più elevata valenza strategica;
c) Per abbattere gli elevati costi d’insediamento per impianti che, essendo di grandi dimensioni,avrebbero comportato un’elevata spesa, fu previsto, un forte abbattimento dei costi sopportati dalle imprese, per l’acquisto e la dotazione della relative infrastrutture produttive, onde favorire la successiva rivendita dei terreni a cosi realmente contenuti.
L’intervento delle A.S.I. è proseguito per tutto il corso degli anni Ottanta, senza mutamenti rilevanti nel quadro legislativo, che pure andava evolvendosi per altri aspetti, con le leggi nn. 853/71 e 186/76.
I Consorzi di industrializzazione hanno proseguito la loro politica di infrastrutturazione di base che ha consentito la realizzazione, nonché il completamento, di molte opere.
La loro attività ha offerto un contributo ai processi di industrializzazione del territorio meridionale, essendo risultate funzionali alle esigenze imprenditoriali, costituite essenzialmente da una domanda di spazi liberi ed infrastrutturati.
E’ oramai evidente che questa stagione dello sviluppo economico si è chiusa definitivamente, in quanto è mutato il contesto internazionale in cui è inserita l’economia nazionale e, con essa, i soggetti economici del Mezzogiorno; si sono trasformati radicalmente dalla metà degli anni ‘70, gli orientamenti strategici della grande impresa settentrionale, prima impegnati su una filosofia di risanamento finanziario e produttivo, e poi caratterizzati da logiche di internazionalizzazione che trascendono l’approccio al problema dello squilibrio tra Nord e Sud, interno al nostro sistema.
Mutano, in tal modo, i protagonisti dello sviluppo meridionale e, seppure con difficoltà, viene a galla una imprenditoria locale che deve costituire il principale referente della nuova politica meridionalistica per i prossimi dieci anni.
In sostanza, è mutato l’insieme delle opportunità e dei vincoli; di conseguenza obiettivi e la strumentazione disponibile per le nuove tecnologie di sviluppo devono trovare definizione e adeguamento.
In particolare, in ordine alle A.S.I., conviene ricordare che:
1) Nate, per lo più negli anni della delocalizzazione della grande impresa, si ritrovano spesso con una dotazione di infrastrutturazione specifica poco adeguata al fabbisogno di un’utenza industriale di piccola e media dimensione;
2) Hanno una cospicua dotazione di infrastrutture, ma una cultura gestionale degli impianti alquanto modesta, quando nella fase attuale dello sviluppo industriale è prevalente il consumo di servizi rispetto a quello delle infrastrutture. Non è infatti i caso che i processi insediativi, ultimi, delle imprese industriali nel Mezzogiorno evidenzino una sostanziale indifferenza, se non addirittura il privilegia mento della localizzazione extra-A.S.I.: sono evidentemente altri fattori attrattivi, rispetto territorio attrezzato, a orientare le scelte di localizzazione delle imprese;
3) La variabile “spazio” e il relativo “costo” assumevano peso decisivo nella fase degli “investimenti ad alta intensità di capitale”. Oggi, con l’automazione dei processi produttivi, e con l’informatizzazione negli uffici, gli insediamenti industriali si caratterizzano per essere capital saving (cioè, a forte risparmio, anche di territorio); di conseguenza si riduce di molto il richiamo di un’offerta di spazio produttivo a prezzo controllato.
Detto ciò, sembra superfluo osservare che le A.S.I. si configurano, come l’emblema di tutta la strumentazione meridionalistica che ha trovato definizione nei passati trent’anni di intervento straordinario.
Negli anni Ottanta, i profondi mutamenti strutturali dell’economia nazionale ed internazionale, frutto delle risposte agli shocks esogeni ed endogeni degli anni Settanta, e l’accelerazione dei processi di innovazione tecnologica, hanno trasformato in profondità l’insieme di opportunità e di vincoli.
Oggi lo sviluppo industriale è fortemente condizionato dalla presenza o meno di “esternalità”, che comprendono una crescente gamma di fattori materiali ed immateriali.
Questa circostanza, genera la necessità di superare una impostazione della politica industriale in termini esclusivamente quantitativi; ovvero, finanziari, legata all’entità delle risorse e degli incentivi finanziari, in direzione di una maggiore enfasi agli aspetti qualitativi, mirata quindi a migliorare le condizioni “ambientali”, in cui si sviluppa il tessuto industriale.
Inoltre, le nuove tecnologie e la loro interazione con l’organizzazione dell’impresa hanno avuto un notevole impatto sulla domanda di localizzazione. Oggi le imprese esprimono, una domanda di spazio diversa dal passato, sia per quantità (diminuita) che per qualità (aumentata). Ne è conseguita più in generale, l’urgenza di ridefinire gli obiettivi e la strumentazione delle strategie di promozione dello sviluppo.
La formazione delle politiche regionali, ha dovuto considerare, in modo più accurato ed articolato tutto l’insieme di nuovi fattori localizzativi, oggi operanti, ovvero fattori logistici, tecnico-produttivi, finanziari, di marketing e di formazione. Conseguentemente si è avviata una riflessione sul ruolo e le funzioni, dei Consorzi e delle aree di sviluppo industriale, i cui risultati vengono recepiti nel nuovo quadro legislativo d’intervento straordinario del Mezzogiorno.
1.4. Il contributo delle A.S.I. allo sviluppo industriale: aspetti positivi ed elementi critici
In sostanza con le A.S.I., si disponeva di uno strumento capace di contemperare insieme le esigenze sia generali che scientifiche delle imprese per conseguire, al meglio gli obiettivi alle quali erano preposte, che possiamo succintamente individuare con:
a) L’ottimizzazione dell’offerta di infrastrutture e di suoli;
b) La riduzione dei conflitti tra i richiedenti d’uso, dei suoli migliori, per ubicazione e locazione;
c) L’offerta dei servizi alle imprese;
d) La difesa ed il controllo ambientale.
Se per l’operatore pubblico, l’utilità dell’agglomerato industriale era data, sia dai positivi effetti ambientali e urbanistici, (comportanti il minor consumo di suolo, contenimento di pressione sull’ambiente e riduzione di inevitabili impatti) che dai positivi effetti economico-gestionali (comportanti minori costi di insediamento e dalla possibilità di realizzare un’offerta congiunta di una serie di servizi di base e avanzati); per l’operatore privato, invece, derivava dalla concreta possibilità di venire in possesso di un “suolo aziendale”, già infrastrutturato, riducendo notevolmente i costi e i tempi d’insediamento, oltre alla possibilità di usufruire di uno spazio qualificato dal punto di vista igienico-sanitario e dell’ambiente di lavoro.
Da ciò le A.S.I., potevano conseguire un insieme di risultati, fra i quali:
1) Fungere da veri e propri Fulcri d’attrazione di imprese da altre province e regioni;
2) Da validi supporto, a sostegno della imprenditoria locale e basi per la nascita di nuove;
3) Da contributo per i livelli occupazionali del territorio interessato, onde proporsi come soggetti attivi delle politiche di risanamento delle condizioni ambientali per il rafforzamento delle infrastrutture primarie preesistenti.
Tuttavia l’esperienza trentennale della politica delle A.S.I., non ha mancato di evidenziarne fattori critici e distorsioni tali da indurre ad una riflessione e di conseguenza ad una riformulazione dell’intervento, per rimuovere le incongruenze e gli errori, rendendolo, finalmente, adeguato alle nuove esigenze del sistema produttivo meridionale.
Con il mantenimento del contesto sociale, in cui le A.S.I. si trovarono ad operare dalla fine degli anni ‘70 in poi, emerse sempre più l’importanza dei fattori legati alla qualità dell’ambiente socio-economico; che andava, via via, ad assumere un ruolo di grande rilievo e di incidenza tale da imporre una trasformazione dei tradizionali agglomerati (non sempre organici e funzionali) che diventano luoghi e strumenti in cui gli utenti possono disporre, anche cooperando e dialogando tra loro, sia di servizi efficienti che di tutti quei fondamentali riferimenti e collegamenti, ritenuti indispensabili allo sviluppo di produzioni moderne e concorrenziali.
Ed è proprio dalla consapevolezza delle carenze sopraelencate che si è partiti per riformulare nuove e più incisive azioni di intervento.
Fra i tanti fattori critici, quelli che hanno avuto più peso nella esperienza A.S.I., sono stati: I ritardi di attuazione; l’incompletezza dell’intervento infrastrutturale; mancata corrispondenza tra le caratteristiche dell’offerta infrastrutturale delle A.S.I. e la domanda da parte delle imprese (caratterizzata da specifici processi produttivi); l’eccessivo distacco tra le aree urbane e la carenza dei collegamenti (reti di trasporto); la smodata proliferazione del fenomeno “agglomerativo”, spesso svincolato da una reale e preesistente richiesta insediativa; infine, la scarsa attività promozionale degli Enti gestori.
Questi aspetti, appena illustrati, hanno portato i soggetti programmatori ad una riflessione sulla necessità di:
a) Ridurre la diversificazione tra le scelte insediative (A.S.I. e N.I.) e quelle di localizzazione spontanea;
b) Riprogrammare i contenuti dell’agglomerazione, inserendo nella connotazione delle strutture e degli Enti di gestione, direttrici, concernenti la fornitura dei servizi, la riprogrammazione insediativa civile, la rete dei trasporti, ecc...;
c) Di progettare e realizzare un network informativo e funzionale fra le aree, per supportare azioni di integrazione sistematica tra territori e settori produttivi, interni ed esterni delle aree.
Per cui si prospetta l’esigenza di concepire l’attrezzatura delle aree, non più limitata alla singola infrastruttura primaria, ma aperta all’insediamento di servizi agglomerativi basati sulle esigenze funzionali delle attività produttive da insediare (aree attrezzate).
Sulla base di quanto detto, le A.S.I. potrebbero svolgere un’auspicabile funzione promozionale di “trascinamento”dello sviluppo, anche con l’anticipazione della domanda potenziale di aree attrezzate e di concessione di servizi, non ancora emersa.
1.5 Le Aree e i Nuclei di Sviluppo Industriale
Dunque, l’area (o il nucleo) di sviluppo industriale rappresenta lo strumento di concretizzazione della politica meridionalistica, già visto nelle scelte imprenditoriali, diretto verso una concentrazione degli investimenti per coordinare attraverso una più efficiente rete infrastrutturale, il sistema delle convenienze all’investimento. Il tutto allo scopo di facilitare l’industrializzazione e allo stesso tempo di concentrare gli sforzi economici e finanziari in un numero delimitato di zone, dotate di risorse naturali e con favorevole ubicazione geografica, per promuovere la nascita degli insediamenti industriali, punti nevralgici dell’economia meridionale.
In questo contesto, dal punto di vista funzionale assumono decisiva rilevanza le attività industriali, che devono costituire la base dinamica della nuova politica di industrializzazione.
Dal punto di vista giuridico, l’area di sviluppo industriale trae la sua origine dallo sviluppo della zona industriale, istituita con la legge speciale dell’08/07/1904, n° 351, per il “per il risorgimento della città di Napoli “, con cui veniva creata una zona apposita per gli insediamenti industriali.[8]
La zona industriale, così istituita dalla legge speciale, non si sviluppa tuttavia in maniera tipica, tant’è che a volte assume rilevanza prettamente urbanistica, cioè con funzione regolatrice di edificabilità, mentre altre volte con funzione generalmente di politica economica, svolgendo un’azione disciplinatrice ed incentivante dello sviluppo industriale.
Il dettato legislativo della L. n. 634/57, facendo riferimento a “determinate zone”, fa nascere il dubbio che si possa trattare delle vecchie zone industriali previste da precedenti leggi di incentivazione per il Mezzogiorno.
Invece dal contesto normativo si evince che l’intero territorio meridionale e le diverse modalità operative e gestionali, costituiscono elementi di diversificazione notevole delle zone industriali dei Consorzi stessi.
Tuttavia in sede esplicativa al fine di differenziare, anche solo formalmente, il nuovo istituto della zona industriale, nel 1959, si preferiva sostituire al termine “classico” di zona, quello di area di sviluppo industriale a cui si aggiunge nel 1960, l’ulteriore termine di nucleo di industrializzazione.
Esistono differenze sostanziali fra i due concetti di zona, previsti dalle due normative; e cioè mentre le zone industriali sono dettate più dall’esigenza di risolvere i problemi di ordine congiunturale, quelle previste dal legislatore deI ‘57, sono inquadrate in una visione coordinata di sviluppo[9]
Infatti le differenze tra le zone industriali tradizionali e le aree e i nuclei di industrializzazione, veniva così spiegata dalla prima circolare del Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno del 07/10/59, n. 21354, : “Le zone industriali, stipate e installate su di una ristretta porzione di territorio comunale... riflettevano essenzialmente preoccupazioni di carattere congiunturale e talora moventi extra-economici, e non si ponevano…. problemi di razionale localizzazione nel senso sopratutto dell’interesse generale, così da evitare squilibri economici regionali e prevenire le conseguenze sfavorevoli “.
Invece “le aree di sviluppo industriale “ comprendono ambiti territoriali sufficientemente ampi ed omogenei, localizzati, cioè in corrispondenza di un adeguato numero di Comuni appartenenti eventualmente anche a diverse province, che, per certe caratteristiche geo-demografiche, debbono servire per “promuovere ed operare tutte quelle trasformazioni ambientali atte a potenziarne ed a svilupparne le forze di attrazione ubicazionale e, quindi, a costituire, delle aree di concentrazione, rispetto all’intero territorio meridionale “.
Mentre le prime si caratterizzano per le particolari agevolazioni di cui usufruiscono come: cessioni gratuite o a prezzo di favore, di aree da parte dei Comuni (nel caso delle zone ex. art. 21, L. 634/57, le agevolazioni si applicherebbero a tutto il territorio del Mezzogiorno); le altre zone si differenziano sulla base di altri elementi, quali infrastrutture, limiti di contribuzione, ecc...
Caratteristica della nuova legislazione è che le zone non sono istituite dalla legge, ma si lascia l’iniziativa di promuovere la loro creazione alle amministrazioni locali.
Elemento comune alle vecchie zone, che rimane radicato nella nuova nozione, é l’esistenza dell’istituto consortile, al quale vengono affidate la gestione e lo sviluppo della zona stessa, anche tramite l’acquisizione in forma coatta delle aree occorrenti, allo scopo di realizzare le infrastrutture necessarie, o di cedere, e eventualmente, locare ad operatori economici i terreni occorrenti per gli insediamenti industriali.
Ai sensi dell’art. 21 della 634/57, infatti, : “allo, scopo di favorire, nuove iniziative industriali di cui sia prevista la concentrazione in una determinata zona, i Comuni, le Province, e Camere di Commercio, Industria e Agricoltura e gli altri Enti interessati, possono costituirsi in Consorzi con il compito di eseguire, sviluppare e gestire le opere di attrezzatura della zona...”.
Mentre con la circolare 08/06/1960, n°5621, il Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno ha sviluppato il concetto di nucleo d’industrializzazione, la stessa circolare riporta che il “fenomeno” della concentrazione industriale può essere, infatti, sostanzialmente graduato in due categorie:
1) La grande concentrazione provocata essenzialmente dall’esistenza di importanti e numerose iniziative industriali che si localizzano in una determinata area e che abbisognano di un vasto ambiente territoriale ed umano aventi particolari caratteristiche geo-economiche;
2) La concentrazione minore è, invece, effetto del fenomeno di agglomerazione di un numero più limitato di imprese industriali, che sfruttano più circoscritti mercati, materie prime esistenti in loco, o alcune caratteristiche naturali ed infrastrutturali, assenti in zone limitrofe.
In fondo i “nuclei” vengono a corrispondere agli agglomerati nei quali sono distribuite le industrie all’interno di un’area. Ogni nucleo, infatti, dovrebbe accogliere di regola, un solo agglomerato
Il Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno ha ritenuto opportuno, sulla base di iniziative emanate per le aree di sviluppo industriale, stabilire che possano essere costituite oltre a tali aree, i nuclei di industrializzazione, atti a favorire i processi concentrazione industriale minore con la predisposizione delle necessarie infrastrutture al fine di ridurre il costo collettivo degli insediamenti.
Per cui il nucleo riguarda un fenomeno di concentrazione minore, comprendente un numero più circoscritto di piccole e medie industrie, inserite in contesti più limitati. sfruttanti materie prime esistenti in loco e situazioni ambientali, nonché infrastrutturali mancanti in zone vicine.
Ad ogni area o nucleo corrisponde, così, un Consorzio Industriale, con la conseguenza che il procedimento di individuazione dell’area o del nucleo, coincide con il procedimento di formazione del Consorzio, cioè con la prima fase di questo.
Il principio delle aree e dei nuclei di sviluppo industriale è alla base di una politica volta alla costruzione di strutture in grado di assorbire, con il tempo, altre unità produttive addizionali e di causare profonde trasformazioni nell’ambiente locale, di gran lunga maggiori di quelle ottenibili con i tradizionali interventi pubblici.
Al fine di raggiungere ciò, le aree in questione dovevano rispondere alle due seguenti principali esigenze:
1) La suscettività a fornire quel complesso di fattori agglomerativi ed ubicazionali (riserva di manodopera, infrastrutture di base, inizializzazione del processo di sviluppo industriale, ecc...), che costituiscono lo stimolo e l’attrazione alla localizzazione delle scelte degli imprenditori;
2) L’esistenza di organismi consortili dotati di un’ampia sfera di attribuzioni, di competenza, di mezzi e rappresentativi di una vasta coesione di interessi locali Con le circolari 07/10/59, n. 2 1534, e 08/06/60, n°5621, il Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno fissava le condizioni e i requisiti minimi occorrenti per l’individuazione delle aree e dei nuclei.[10]
La prima ditali condizioni era determinante, in quanto consisteva nella certificazione della esistenza di una effettiva tendenza alla concentrazione industriale, nonché da un minimo di insediamenti: cui si aggiungono i requisiti secondari ed accessori.
Ma mentre i requisiti di prima fascia avevano un valore determinante, nel senso che se non venivano soddisfatti non poteva sorgere l’area o il nucleo industriale, i requisiti secondari e quelli accessori “integravano la qualificazione già operata, consentendo una valutazione più precisa delle concrete possibilità del territorio di accogliere un adeguato numero di iniziative”.[11]
E’ pertanto evidente l’aspetto innovativo rispetto alla prima fase dell’intervento straordinario, non identificabile nella infrastruttura, oltretutto già prevista nella c.d. pre-industrializzazione, dalla legge istitutiva della Cassa per il Mezzogiorno, quanto nella previsione di un certo numero di comprensori, aree e nuclei d’industrializzazione, che avrebbero dovuto facilitare l’insediamento di impianti industriali.
La stessa legge 634/57 prevedeva, con l’istituzione di tali Enti, la necessità di eseguire e gestire le opere infrastrutturali necessarie per l’attrezzatura delle zone in conformità della politica meridionalistica, volta non solo alla concentrazione degli interventi, ma alla promozione di qualsiasi altra iniziativa ritenuta utile allo sviluppo industriale della zona.[12]
Attraverso questo nuovo Ente, si cercava di coinvolgere la classe politica locale, non solo nella realizzazione e nella esecuzione delle opere infrastrutturali, ma anche nella determinazione e nella progettazione della stessa impostazione accentratrice che, fino ad allora, aveva caratterizzato la Cassa per il Mezzogiorno.
Pertanto i Consorzi Industriali vengono a costituire la struttura amministrativa che avrebbe dovuto attuare la nuova politica degli insediamenti industriali nel Mezzogiorno, assolvendo a compiti di mediazione a livello sociale complessivo, in quanto rivolti a compensare e a comporre gli interessi contrastanti e a realizzare i processi d’industrializzazione nel loro impatto sul territorio e sulla struttura sociale meridionale, onde ridefinire il quadro generale di riferimento per mezzo dello strumento specifico del piano regolatore dell’area o del nucleo[13]
In quest’ottica, i Consorzi industriali si presentano come la sede più adeguata per la formazione di un personale politico capace di comporre i problemi locali con il livello nazionale, dal punto di vista e sul territorio della linea d’industrializzazione, della programmazione e dello sviluppo e quindi come la possibile chiave di sviluppo industriale nel Mezzogiorno[14]
1.6 I Consorzi d’industrializzazione e la loro prima esperienza negli anni ‘60
1.6.1 I Poli di sviluppo e programmazione economica
Fin dalla loro costituzione i Consorzi hanno rilevato gravi disfunzioni in merito alle enormi difficoltà finanziarie che li costringevano a dipendere sempre più spesso e volentieri dalla Cassa per il Mezzogiorno, o addirittura dalle stesse industrie che anticipavano i fondi necessari, con chiari effetti distorsivi.
Una simile situazione portò a qualificarli come sede di mediazione di interessi e un potenziale centro appetibile per la classe politica locale, ma nel complesso dotato di un limitato potere decisionale in merito alle grandi scelte di localizzazione, che venivano prese altrove e a più alti livelli.
Con il Consorzio si veniva a creare un sistema di mediazione di interessi per la burocrazia della Cassa, gli Enti locali, la grande e la piccola impresa locale, i proprietari edili e quelli delle aree, le organizzazioni dei lavoratori, i disoccupati, etc..., e inoltre, il fatto stesso che “in una regione sottosviluppata, come il Mezzogiorno, il potere di formulare, selezionare, i progetti relativi allo sviluppo del comprensorio, che lo Stato avrebbe dovuto finanziare, collocava il Consorzio al centro di intense pressioni locali e conflitti d’interesse; i quali divennero, presto, una catena di rapporti clientelari tra Stato e regioni meridionali e furono subito conquistati dai potenti gruppi locali”
Questo fenomeno di feudalizzazione degli organi consortili sembra farsi più pericoloso, tanto da minacciare la carica innovativa per cui erano stati istituiti all’interno della politica d’intervento straordinario nel Mezzogiorno.
Nella circolare n°1840 del 25/03/64 deI Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno, si affermava “la necessità che i Consorzi, configurati per legge come enti di diritto pubblico, sfruttino la loro capacità autonoma, ponendo innanzitutto la massima cura nell’assegnare i posti di responsabilità a uomini tecnicamente preparati.. Cioè occorre evitare l’errore di porre al vertice persone illustri per altri meriti”.
Si renderà, quindi, assolutamente necessario che i dirigenti dei Consorzi specie il Presidente, il Comitato Direttivo e il Direttore, vengano scelti, come lo statuto consortile prevede, tra persone aventi i requisiti di sicura ed accertata esperienza in materia economica, amministrativa e industriale.
1.6.2 I Poli di sviluppo
Uno degli elementi più eclatanti di una chiara disfunzione dell’istituto consortile è rappresentato dall’eccessiva proliferazione del fenomeno dei poli di sviluppo.
Si ripeteva l’esperienza negativa della prima fase dell’intervento nel Mezzogiorno, stravolgendo la politica di base,ispiratrice delle aree e dei nuclei d’industrializzazione. Aree e nuclei tendevano a moltiplicarsi in modo incontrollato, vanificando, cosi, non solo il controllo delle autorità preposte, ma anche le potenzialità di sviluppo in esse concentrate.
A questo fenomeno della proliferazione se ne contrappone un altro e cioè quello della concentrazione degli investimenti.
Si realizza, insomma, un profondo divario tra la dinamica degli investimenti dinamica del sorgere delle aree industriali e quindi della spesa pubblica infrastrutturale nel Mezzogiorno, tra una concentrazione delle prime e una forte dispersione delle seconde.
Gli insediamenti del Sud sono talvolta, vere e proprie cattedrali nel deserto, grossi stabilimenti semiautomatizzati nel settore della petrolchimica e della siderurgia, ad alta intensità di capitale e a bassa intensità di lavoro, dotati di scarsa capacità diffusiva, che però riescono ad ottenere le maggiori agevolazioni di tipo creditizio, infrastrutturale e fiscale.
Il fenomeno dei poli di sviluppo riflette processi di concentrazione territoriale (oltre che settoriale e finanziario) del capitalismo mondiale, anche in vista del nuovo orientamento della classe politica del Governo verso un diverso tipo di sviluppo nel Mezzogiorno.
Dei poli di sviluppo si parlò, per la prima volta, nella relazione al Parlamento del Ministro per il Mezzogiorno, nel 1961[15]
Teorizzati dal Perroux e sostenuti in Italia dal Graziani e dal Saraceno i poli di sviluppo industriale trovano una precisa formulazione politica nel 1960, nella Relazione illustrata dal Ministro Pastore in un convegno sulla politica di sviluppo nel Mezzogiorno, dove si sottolinea come “...un’accelerazione sulla politica del Mezzogiorno, in grado di dare alla espansione economica un andamento cumulativo, abbisogna di una struttura industriale integrata e moderna, che faccia perno sui poli di sviluppo, opportunamente precisati dal punto di vista della localizzazione geografica, della definizione settoriale e della strumentazione istituzionale, i soli suscettibili di realizzare una non indubbia, magari lenta, crescita, ma comunque profondamente strutturale e di assicurare agli investimenti, il massimo degli effetti moltiplicativi collaterali”[16]
Ed è proprio così che nascono i Consorzi per le Aree e i Nuclei di sviluppo industriale, organismi associativi a carattere facoltativo, tra Comuni, Province, Camere di Commercio e di Enti interessati a favorire nuove iniziative industriali,di cui sia prevista la concentrazione in una determinata zona
Era avvertita l’esigenza che la politica del Mezzogiorno necessitasse di “ una ulteriore fase di programmazione dell’intervento nel suo insieme”, accentrando le differenziazioni dell’intervento nel Mezzogiorno, puntando sull’integrale sviluppo delle strutture produttive di quelle zone che possono diventare veri e propri poli di sviluppo, cercando di favorire l’esodo dalla zone più povere.
La questione meridionale restava così affidata “alla creazione di efficienti poli di sviluppo, con un massiccio processo industriale e con un’agricoltura irrigua inserita nel mercato interno ed internazionale”.
I poli, avevano finalità produttive ben precise, a breve e a medio termine, con costi complessivi comparativamente bassi: il tutto doveva servire a creare, nel Mezzogiorno, un autonomo meccanismo di sviluppo.
L’intervento pubblico era così teso, da una parte, a sollecitare le tendenze espansive presenti nel Sud e,dall’altra, verso le Zone di sistemazione, laddove non erano previsti rilevanti investimenti industriali, in contesti caratterizzati da un’agricoltura povera e tradizionale, zone destinate al progressivo abbandono e spopolamento
Il nuovo orientamento della politica meridionalistica era oramai tracciato: “assecondare l’indirizzo spontaneamente manifestatosi nelle decisioni imprenditoriali per una concentrazione degli investimenti, onde accrescere il sistema delle convenienze già approntato dalla realizzazione delle infrastrutture ambientali e della politica degli incentivi”[17]
Sono le tendenze di mercato, dunque, ad agevolare l’intervento pubblico e non viceversa.
Va inoltre scomparendo qualsiasi elemento di scelta dal basso: è quasi sempre il Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno (prima della sua soppressione) che sceglie le aree di sviluppo e poi le comunica agli organi locali, grazie anche all’ambiguità della stessa legge 634/57 e alla luce delle circolari attuative.
A ciò aggiungasi un altro fattore deterrente, quale quello della spesa pubblica, sempre più assistenziale in riferimento alle c.d. zone di sistemazione.
Ed è proprio tale orientamento che autoalimenta quella tendenza alla dispersione e alla proliferazione delle aree, dei Consorzi industriali ed opere infrastrutturali, anche in assenza di consistenti insediamenti industriali.
1.7 La “nuova politica” di localizzazione industriale e programmazione economica degli anni ‘60
Con la presentazione della Relazione Pastore (1961), illustrativa dei risultati del 1° decennio di intervento straordinario, alla Camera dei Deputati, prese avvio il dibattito politico istituzionale: tutto incentrato sul problema della programmazione economica. Veniva, per tale via, riconosciuta l’insufficienza degli interventi necessari per il processo d’industrializzazione del Mezzogiorno per la inadeguata localizzazione delle industrie nel Sud e per la loro scarsa capacità diffusiva; inoltre si riconosceva il ruolo subalterno degli Enti pubblici e degli Istituti di credito rispetto alle tendenze iniziali, senza contare il fatto che il boom economico non aveva fatto altro che allargare il divario fra il Sud ed il resto d’Italia.
La situazione che si era venuta a creare era talmente disastrosa da indurre i politici e gli economisti ad un’azione di razionalizzazione di tutta l’azione meridionalistica in funzione di un vero e proprio intervento programmato.
Sulla base di ciò la maggioranza diede al Governo l’incarico di predisporre uno schema organico di sviluppo, costituito nella cd. Nota Aggiuntiva o (nota La Malfa).
Ed ecco la cd. terza via che torna a riproporsi, in quanto “prefigura un modello istituzionale che accantonava il protezionismo liberale e dall’altro i dibattiti precedenti sulla programmazione. Il sostegno all’industria si inserisce in un quadro di scelte statali e perciò sgancia lo sviluppo e i suoi frutti dalla sola creatività imprenditoriale. Si scopre anzi che lo sviluppo segue le linee “politiche” e si rivendica una competenza a fissarle”[18]
Uno dei maggiori ostacoli all’efficienza dell’intervento straordinario consisteva proprio nell’abnorme proliferazione delle aree e dei nuclei di industrializzazione, causata dalla forza di interessi arretrati e parassitari, che si opponevano ad una visione centralizzata degli interventi e spesso incoraggiata dagli organi dirigenti dell’apparato della Cassa per il Mezzogiorno. Ma proprio questa sarà l’alternativa statale: assorbimento completo dell’intervento per il Mezzogiorno nella politica di programmazione o mantenimento della struttura straordinaria; la programmazione, infatti, implica la ristrutturazione dell’apparato che gestisce l’intervento nel Mezzogiorno ed il superamento della politica meridionalistica, come politica aggiuntiva e settoriale.
Sulla localizzazione degli interventi, il programma economico nazionale (Piano Pieraccini) distingue tre aree economiche in relazione ai livelli e alle tendenze di sviluppo.
a) Aree di sviluppo primario (Italia nord-occidentale);
b) Aree di sviluppo secondario;
c) Aree di depressione (che oltre al Mezzogiorno comprendono alcune regioni dell’Italia centrale e altre zone dell’Italia del nord—orientale, laddove si poneva come obbiettivo, per la massimizzazione dello sviluppo economico, la necessità di concentrare maggiormente gli investimenti in certi paesi, prevedendo l’intensificazione degli interventi, in un certo numero di “aree di sviluppo industriale”, caratterizzate da notevoli possibilità di sviluppo industriale, agricolo e turistico).
L’intervento intensivo, all’interno delle “aree di sviluppo globale”, doveva essere tale che gli investimenti avrebbero dovuto localizzarsi in prevalenza in tali aree, in particolare nelle aree e nei nuclei di industrializzazione, che complessivamente avrebbero dovuto assorbire circa l’80% dei nuovi posti di lavoro nell’industria (mentre prima il 50% era destinato alle aree di sviluppo agricolo).
Si sottolineava inoltre che l’intervento pubblico avrebbe dovuto incoraggiare l’installazione nel Mezzogiorno delle grandi imprese industriali capaci di esercitare effetti propulsivi sull’ambiente economico.[19]
Con la legge 26/06/1965, n. 717, viene adottata la linea della concentrazione contenuta nel Piano Economico, confermando la scelta dei poli di sviluppo, che aveva precedentemente ispirato la legge 29/09/1962, n. 1462.
I principali aspetti di tale disciplina in merito ai Consorzi industriali, sono:
a) Agganciamento della politica meridionalistica alla programmazione economica nazionale, mediante l‘inserimento degli organi dell’intervento straordinario nel sistema di programmazione economica. La nuova disciplina si caratterizza per l’intento di operare una razionalizzazione degli interventi nel Mezzogiorno, per una marcata centralizzazione, nonché per il rafforzamento dei poteri d’indirizzo, nel quadro della politica di programmazione nazionale, con l’introduzione dell’istituto del “piano pluriennale di coordinamento”. Si ha inoltre la soppressione del Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno, che fino alla precedente normativa aveva assunto finzioni di controllo e di coordinamento. Esso aveva, inoltre, diversi poteri fra i quali: autorizzare la Cassa ad intervenire con i contributi per finanziare i Consorzi industriali; deliberare sugli statuti dei Consorzi per le aree e nuclei determinare le modalità di assunzione, da parte della Cassa, degli oneri a carico dei Consorzi per l’esecuzione delle opere e di attrezzature o per la redazione del piano regolatore e per la concessione di contributi per la costruzione di case destinate ad alloggi per i lavoratori; determinare le modalità per la concessione dei contributi per invasi approvare i piani regolatori dei Consorzi per le aree e i nuclei industriali. Le attribuzioni del Comitato dei Ministri, istituito con la legge n°646/50, vengono pertanto trasferite al C.l.R. ( Comitato interministeriale per la ricostruzione), salvo i poteri di direttiva e di vigilanza verso la Cassa e i suoi organismi, i quali vengono trasferiti ad un nuovo organo, il Ministro per gli interventi nel Mezzogiorno. Il nuovo Comitato, oltre ad essere un organo preparatorio per la predisposizione e la formulazione dei piani di coordinamento, diventerà titolare delle attribuzioni svolte precedentemente dal Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno.[20]
b) Unificazione e centralizzazione del coordinamento dell‘intervento ordinario e straordinario, mediante lo strumento del Piano pluriennale di coordinamento. Tale piano dovrà essere predisposto d’intesa con le amministrazioni statali o regionali, e formulato dall’apposito Comitato costituito in seno al C.I.R., cui spetta il compito di approvano, armonizzarlo in attuazione del Programma economico nazionale e sulla base dei piani regionali, impegnando cosi le amministrazioni centrali e la Cassa per il Mezzogiorno ad adottare i provvedimenti necessari per la loro attuazione. Spetta infatti al Piano di coordinamento individuare i comprensori di concentrazione: zone irrigue e zone di valorizzazione agricola ad esse connesse; aree e nuclei di sviluppo industriale, comprensori di sviluppo turistico. Ulteriore aspetto della centralizzazione e dell’unificazione è dato dal fatto che i piani di coordinamento hanno per oggetto “ tutti gli interventi pubblici diretti a promuovere ed agevolare la localizzazione delle attività produttive e di quelle a carattere sociale nei territori meridionali “.
c) Partecipazione delle regioni alla predisposizione del piano di coordinamento degli interventi nel Mezzogiorno , la cui definitiva approvazione spetta, come già visto al C.I.R.
A tale scopo:
1) Il C.I.R. viene integrato, per le decisioni riguardanti i piani di coordinamento degli interventi nel Mezzogiorno, dai Presidenti delle Giunte Regionali;
2) I1 Comitato dei Ministri istituito in seno al C.I.R. opera “d’intesa con le amministrazioni regionali interessate” e viene anch’esso integrato dai Presidenti delle Giunte Regionali;
3) A ciascuna Regione viene riconosciuta la facoltà di presentare proposte per gli interventi da effettuare nel proprio territorio.
Vengono di fatto ignorate le competenze spettanti alle Regioni e agli Enti locali non solo per quel che concerne l’elaborazione dei piani, ma anche per l’attuazione dei piani regionali.
1.8 La natura giuridica
Ai politici e agli economisti del tempo, la decisione di istituire enti quali i Consorzi industriali era parsa come l’iniziativa più audace per l’intervento straordinario nelle regioni meridionali.
Nelle loro intenzioni, i Consorzi di sviluppo industriale avrebbero dovuto favorire la concentrazione di attività industriali in attrezzati ed efficienti “poli di sviluppo”, da dove poi si sarebbe irradiata fino alle zone più povere e depresse del sud.
Tuttavia solo parte dei propositi sperati si sono realizzati, perché sia gli investimenti pubblici che quelli privati nel Mezzogiorno, sin dalla costituzione delle A.S.I., presso la Cassa, non sono stati tutti indirizzati verso i poli e le aree di sviluppo, anche perché circa il 60% di questi sono stati dirottati verso altre zone, preferendo così scelte tecnicamente ed economicamente più vantaggiose.
Le difficoltà ed ambiguità con cui tale ente si è dovuto scontrare, durante il suo cammino, non sono state però soltanto di natura economica, ma anche giuridica. Si pensi soltanto alle innumerevoli e contrastanti vicissitudini riguardo alla sua natura giuridica, che lo hanno condizionato fortemente, rallentandone l’attività..
Il legislatore, definì, a scanso di equivoci, il Consorzio di sviluppo industriale come ente di diritto pubblico, attribuendogli le caratteristiche dell’ente associazione. Infatti, come già detto sui soggetti partecipanti al Consorzio, si riscontra la presenza sia di Enti locali ed istituzionali che di Enti pubblici e privati, senza alcuna preclusione, a patto che naturalmente la loro attività sia subordinata alle finalità dell’ente e cioè allo sviluppo industriale del Mezzogiorno.
Si era, così, preferita una soluzione democratica a quella territoriale, con la piena consapevolezza dei difetti della prima e dei pregi della seconda (quest’ultima ispirata al modello di agency anglosassone).
Ed ecco che il Consorzio industriale viene inquadrato come ente politico che associa in se organismi pubblici e privati.[21]
I poteri che gli vengono attribuiti dalla legge traggono legittimazione da un’ampia rappresentatività democratica.
Il momento tecnico è subordinato a quello politico e cioè a quello dello sviluppo economico del Mezzogiorno.
In primo luogo, occorre notare che i Consorzi non sono coattivi: nel senso che non esiste, infatti, alcuna norma di legge che obblighi gli Enti operanti in una certa zona a parteciparvi.
La prevalenza di tale elemento volontaristico consente di qualificare gli enti in esame come strutture pubbliche a base associativa, di carattere non necessario, non assimilabili nè ai Consorzi amministrativi, nè a quelli previsti dalla legge comunale e provinciale.[22]
I Consorzi, infatti, non sono organi ausiliari dei Comuni, bensì enti autonomi e “collegati” all’Agenzia per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno (adesso soppressa con D.l.g.s. del 03/04/93, n. 96) ed alle regioni; infatti la loro costituzione e regolamentazione avviene a mezzo di un procedimento specificamente ed interamente disciplinato dalla legge (art. 50, T.U., n. 218/78) diverso da quello vigente per i Consorzi degli enti locali, e che si conclude con l’approvazione del relativo statuto mediante un atto di competenza sia dell’autorità governativa locale, sia del Presidente della Repubblica (fino al 1977, attualmente di spettanza della Regione).
Pertanto si può affermare che i Consorzi di sviluppo industriale costituiscano una tipologia di enti pubblici sostanzialmente diversa dai normali consorzi comunali e provinciali.
Da ciò, una conseguenza molto rilevante, purtroppo spesso dimenticata dagli attuali organi di vigilanza: ai Consorzi industriali devono applicarsi le sole norme specificatamente dettate per essi, e non anche le norme delle leggi comunali e provinciali.
Rimane da stabilire, adesso, se i Consorzi possano rientrare nella pur ampia ed eterogenea categoria dei Consorzi amministrativi, rispetto ai quali si devono verificare le seguenti caratteristiche:
1) L’assorbimento dei compiti viene considerato come proprio di ciascuno dei soggetti consorziati;
2) La strumentalità, di conseguenza, del Consorzio rispetto allo scopo che legittima la partecipazione ad esso dei singoli consociati;
3) L’assorbimento dei compiti stessi come la sola ragione d’essere del Consorzio, esclusa perciò ogni finalità estranea ad essi.
A ben guardare, nessuno di questi caratteri si ritrova nei Consorzi industriali. Non il primo, in quanto l’interesse che può muovere un ente a consociarsi è sì quello di favorire lo sviluppo industriale di una zona, ma non è necessariamente un suo fine istituzionale; si pensi, ad esempio, agli Enti provinciali e del Turismo, agli Enti di sviluppo agricolo che, pur partecipando a numerosissimi Consorzi industriali, indubbiamente hanno finalità statutarie proprie e ben diversificate da questi ultimi. Non quindi il secondo carattere, che deriva dal primo.
E nemmeno il terzo, posto che il Consorzio può assumere,per espressa disposizione della legge istitutiva, “ qualsiasi iniziativa volta a favorire lo sviluppo industriale del comprensorio”.
Tale finalità è talmente vasta ed imprecisata, che verrebbero legittimate le iniziative più varie e impensate.
Da quanto detto si può dunque evincere che i Consorzi industriali non possono essere assimilati ai Consorzi amministrativi
Circa le finalità prioritarie e specifiche per il raggiungimento delle quali i Consorzi sono stati istituiti, occorre osservare che esse vincolano i Consorzi stessi al soddisfacimento di interessi che, seppure localizzati, trascendono da quelli dei singoli associati.
Ne consegue che, manca, per questi ultimi, la possibilità di influenzare in modo determinante le vicende dell’Ente, le quali sono fissate preventivamente dalla legge. Sembra, al riguardo, corretto inquadrare i Consorzi di sviluppo industriale fra le istituzioni, anziché fra le corporazioni; tanto più che al conseguimento dello scopo comune i mezzi degli associati contribuiscono in misura assai modesta, mentre la parte di gran lunga prevalente della spesa è sostenuta da altri enti, in particolar modo dallo Stato tramite le regioni.
Ed ancora, i Consorzi non sono nemmeno enti territoriali, non sussistendo nei loro confronti connotati essenziali che la dottrina attribuisce a tale categoria: vale a dire, da una parte, il potere d’imperio finalizzato al soddisfacimento della generalità degli interessi esistenti in una certa zona; e, dall’altra, l’appartenenza necessaria all’Ente di tutti i soggetti che appartengono al territorio in ragione del domicilio o della residenza.
Riguardo al primo requisito, infatti, è di tutta evidenza che l’industrializzazione dell’area o del nucleo, sebbene implichi una serie di attività collegate di diversa natura, non esaurisce le materie oggetto della competenza tipica degli enti locali territoriali.
Riguardo al secondo requisito è altrettanto evidente che il Consorzio, come già accennato in precedenza, non è composto da tutti i soggetti del comprensorio, ma solo da quelli che hanno un interesse particolarmente qualificato allo sviluppo industriale della zona.
Esso, inoltre, può comprendere altri soggetti che non appartengono al comprensorio; tale è il caso, già considerato, dei Comuni confinanti che sono indirettamente interessati ai risultati dell’attività del Consorzio.
D’altra parte, l’elemento territoriale ha un rilievo autonomo sotto due profili:
1) Il diritto all’integrità del territorio, che riceve specifica tutela nel caso di conflitto di competenza fra Consorzi finitimi;
2) La particolare qualificazione giuridica che il territorio stesso riceve, come già visto precedentemente, ad opera del Consorzio, attraverso il piano regolatore. In tal senso si può parlare dei Consorzi di sviluppo industriale come di enti a “base territoriale”.
A rivoluzionare tutte le concezioni sulla natura giuridica dei Consorzi di sviluppo industriale, intervengono due successive sentenze della Corte di Cassazione con cui si sancisce che i Consorzi sono a tutti gli effetti “enti pubblici economici”, pur non avendo questi alcun scopo di lucro e la natura di enti privati; con evidenti diversità di soluzioni circa il sistema di contabilità, il regime dei controlli e quello fiscale, rispetto al sistema applicato fino a tale periodo.
La suprema Corte giunge a tale sentenza argomentando che la caratteristica peculiare dell’ente pubblico economico è rappresentata dall’esercizio di un’attività (a nulla rilevando se esclusiva o prevalente) imprenditoriale, che rappresenti lo strumento per il raggiungimento dei fini istituzionali e per il soddisfacimento di pubbliche esigenze. In pratica, si tratterebbe di un’attività operante nel settore economico, preordinata al raggiungimento di risultati patrimoniali di conservazione, scambio e produzione di beni e servizi, a nulla rilevando che non esiste il perseguimento di uno scopo primario di lucro, anche se in regime di monopolio.[23]
D’altronde l’esercizio da parte dei Consorzi di un’attività imprenditoriale, in conformità dei principi esposti, nelle citate sentenze della Corte di Cassazione, non è assolutamente in contrasto con il contenuto normativo della legge istitutiva, la quale dà la facoltà ai Consorzi di assumere qualsiasi iniziativa ritenuta utile per lo sviluppo industriale della zona.
Si aggiunge, inoltre, che lo statuto-tipo dei Consorzi industriali prevede, come si è già ampiamente illustrato precedentemente, per il raggiungimento dei propri fini istituzionali, la possibilità per gli stessi enti: di procedere all’acquisto di aree ed immobili per l’impianto di aziende e servizi, la gestione di opere, la costruzione di rustici industriali, la vendita alle imprese delle aree acquistate, di riscuotere rendite derivanti dal patrimonio consortile e riscuotere canoni locativi nonché i proventi derivanti dalla amministrazione dei fondi.[24]
Afferma la Suprema Corte di Cassazione che: “Una tale attività di rilevante portata ed operante nell’ambito competitivo dell’economia agraria, industriale e commerciale, al pari di quella svolta da imprese private, non può non conferire al Consorzio il carattere di ente pubblico economico”.
Il riferimento alle imprese private richiama la natura sostanziale dell’attività esplicata dai Consorzi.
Si fa rilevare infatti, che i compiti affidati dalla legge, e ancora più dagli statuti, ai Consorzi, sottolineano il carattere imprenditoriale delle attività, in analogia con le note caratteristiche indicate nell’art. 2082 del codice civile.
La dottrina dominante non ha mai accettato la decisione che qualificherebbe i Consorzi di sviluppo industriale come enti pubblici economici, eccependo che gli enti pubblici sogliono distinguersi in autarchici ed economici: i primi importerebbero l’esercizio di poteri d’imperio, mentre i secondi l’esercizio di un’attività imprenditoriale, alla stregua dei privati.
Pertanto si ha un ente pubblico economico tutte le volte che l’ente svolga professionalmente “un’attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni o di Servizi” (art. 2082 CC.).
A questo punto secondo siffatta interpretazione, è ovvio che i Consorzi non rientrano nella categoria degli enti pubblici economici, in quanto certamente essi non sono titolari d’impresa, ma svolgono, viceversa, finzioni pubblicistiche, in molte delle quali è rilevante il momento della supremazia (si pensi ad es. ai penetranti piani urbanistici).
Manca, tra l’altro, nei Consorzi industriali, qualsiasi scopo di lucro avendo la loro azione natura prevalentemente promozionale.
I Consorzi si limitano a porre in essere le premesse e le condizioni perché le imprese possano svolgere la loro attività economica, ma da questa essi ne restano fuori; i loro interventi rimangono a monte della gestione d’impresa
Sicuramente i Consorzi hanno uno scopo ed una funzione economica, anzi questi costituiscono proprio la loro ragion d’essere.
E’ facile, a questo punto, discernere gli enti che svolgono una funzione di impulso e di regolamentazione dell’economia e che quindi esercitano poteri pubblici, da quelli che, invece, svolgono attività di produzione per il mercato, e di intermediazione nello scambio, al pari degli imprenditori privati.
Di conseguenza la qualificazione di ente pubblico economico è riscontrabile solo in quest’ultimo tipo di enti e non anche nei primi
A rendere ancora più ambigua ed incerta la qualificazione della natura giuridica dei Consorzi industriali, sono intervenute nel 1977 e nel 1983 altre sentenze sempre della Corte di Cassazione e del T.A.R. della Campania definiscono tali organismi come enti pubblici non economici, o addirittura come veri e propri enti locali. Considerando che i soggetti partecipanti possono essere vari e molteplici, come ampiamente illustrato precedentemente, affermare, come fa la sentenza del T. A. R. della Campania, che ci si trovi di fronte ad un ente locale del tipo degli enti locali istituzionali, sembra alquanto azzardato.
Forse, in definitiva, ci si poteva accontentare, fino a qualche anno fa, di una qualificazione meno impegnativa, che però, realisticamente prendeva atto della insostenibilità complessiva delle tesi prospettate: “I Consorzi di sviluppo industriale possono qualificarsi come enti associativi, a base territoriale, con compiti di pianificazione urbanistica e di propulsione allo sviluppo globale del territorio interessato”.[25]
Ma, con l’entrata in vigore del IV°comma dell’articolo 36, L. n. 317/91,: “I Consorzi di sviluppo industriale, costituiti ai sensi della vigente legislazione nazionale e regionale, sono enti pubblici economici”.
Si risolve, cosi, definitivamente un problema interpretativo che ha agitato per lungo tempo la dottrina e la giurisprudenza italiana, creando dei conflitti, spesse volte, deleteri per la loro gestione.
Questa legge inquadra, con un valore di interpretazione autentica, i Consorzi di sviluppo industriale, costituiti in base alla legislazione statale, sia in base alle leggi regionali come enti pubblici economici, collocando i Consorzi industriali nell’ambito della contrattazione privatistica.
Si tratta di una definizione legislativa che, oltre a risolvere il problema interpretativo prospettato, ha il grande pregio di rendere omogenee, finalmente le varie figure dei Consorzi industriali, che trovano la loro fonte istitutiva, volta per volta, o nella legislazione sul Mezzogiorno o in leggi statali speciali o infine, in leggi regionali.
Indipendentemente dalla configurazione dottrinale che si voglia dare all’istituto “ente pubblico economico” (sulla nozione in dottrina, non vi è ancora una soluzione univoca) è comunque oramai pacifico che, nel più grande alveo delle privatizzazioni e della ricerca di efficienza del settore pubblico, l’ente pubblico economico rappresenta una delle vie più ricche di prospettive.
La necessità di addivenire ad una reale trasformazione dell’ente pubblico economico in senso privatistico impone, però, di eliminare taluni equivoci.
Il riassetto normativo, sia pure allo stato embrionale, anche alla luce di chiare pronunzie giurisprudenziali (Corte di Cassazione, Sez. Un., nn. 6178 e 6179, n. 13452 del 1991, n. 11436 del 1992) definisce in termini sempre più trasparenti gli enti pubblici economici, come strutture di tipo imprenditoriale rispondenti alle regole del C.C., tanto che risulta regolarmente applicabile ad essi la disciplina dettata in materia di S.p.A., (ai sensi dell’art. 12, comma XII, D.L. 25/05/1993, n. 149, convertito con modificazioni, dalla L. 19/07/1993, n. 237) e che per i rapporti di lavoro trovano applicazione le norme di diritto privato.
Queste ultime due normative, infatti, hanno caratterizzato in termini marcatamente privatistici i Consorzi industriali per renderli più rapidi nelle decisioni e più snelli nelle procedure.
Mentre, i momenti tipicamente gestionali sono soggetti alle norme di diritto privato (sicché è da escludere qualsiasi coloritura pubblicistica), il profilo pubblico degli e.p.e. si riduce al momento genetico (ossia istituzione ed organi), ed a quello finale (valutazione e approvazione dei risultati), fino alla possibile liquidazione del Consorzio.
Sempre di stampo pubblico sono le norme sulle designazioni e nomine degli organi, sul funzionamento degli organi collegiali (L. n. 14/78), nonché la legislazione antimafia, sugli appalti e contro il riciclaggio del denaro sporco.
Sotto questo profilo, pertanto la categoria dei Consorzi di sviluppo industriale sembra finalmente assumere una configurazione giuridica unitaria, vengono conferiti loro più ampi spazi operativi specie nel settore dei servizi alle imprese e vengono assimilati alle società per azioni e resi più snelli ed efficienti, come da tempo, reclamava la Confindustria.
Recentemente, a seguito del D.L. 08/02/1995, n. 32, (convertito dalla legge 07/04/1995, n. 104), si è provveduto all’abrogazione del comma XII dell’articolo 2 L n°237/93, per cui i Consorzi industriali non vengono più assimilati alle S.p.A., pur rimanendo sempre a tutti gli effetti e.p.e.
Questa legge è stata in un certo senso emanata per fare ordine sulla normativa applicabile a tali Enti, facendo tacere opinioni e tesi discordanti che si erano formate a seguito della loro equiparazione alle società private, specificatamente alle S.p.A.
Infatti tale assimilazione comportava l’applicazione di norme, dettate specificatamente per le società per azioni, agli enti pubblici economici (in quanto tali,come i Consorzi industriali) in contrasto con la disciplina dettata per i Consorzi industriali: ad esempio, era previsto l’obbligo per i Consorzi medesimi all’iscrizione nel registro e imprese ( obbligo a cui il Consorzio non era affatto tenuto) e, l’estensione agli stessi della disciplina fallimentare (tipici delle società private) mentre per legge i Consorzi, non possono fallire, potendo applicarsi solo una disciplina liquidatoria.
Per tale effetto è necessario l’intervento dei competenti organi regionali che dovranno procedere quanto prima, mediante appositi provvedimenti legislativi all’adeguamento della normativa vigente.
1.9 I Controlli, la Vigilanza e la Tutela sui Consorzi Industriali
1.9.1. Evoluzione e storia della disciplina sui controlli
Strettamente connessa con la natura giuridica dei Consorzi A.S.I. è la problematica dei controlli sugli atti di quegli Enti, e più in generale, della vigilanza e della tutela sulla attività svolta.
Le posizioni della dottrina, anche qui, si possono sostanzialmente ricondurre a due indirizzi: il primo inquadra la figura dei Consorzi nella più ampia categoria degli enti amministrativi dipendenti dalle Regioni e sottopone il controllo sugli atti non già al CO.RE.CO., di cui all’articolo 130 C., ma agli organi di amministrazione attiva della Regione.
Il secondo indirizzo, invece, sostiene che la disciplina di controllo sui Consorzi ai quali partecipano insieme agli Enti territoriali anche altri enti è analoga a quella prevista per i Consorzi composti esclusivamente da Comuni e Province. Di conseguenza anche i Consorzi per le aree e i nuclei sono assoggettati ai controlli previsti per Comuni, Province, e loro Consorzi dalla legge Scelba.
Il Consiglio di Stato è intervenuto nella materia con diverse sentenze, fra le quali due di particolare importanza.
Con la prima del 26 Luglio 1978, n. 758, Sez. IV, ha sostenuto la tesi “autonomistica” e quindi l’analogia dei Consorzi A.S.I. con quelli composti da Comuni e Province.
Con la seconda, del 27 Settembre 1979, n. 738, Sez. IV, si è sostenuto la natura “strumentale” di questi Enti parificandoli agli enti amministrativi dipendenti dalle Regioni.
Con la prima decisione richiamata, confermativa di quella del T.A.R. di Roma, Sez. 1, 8 Gennaio 1975, n. 3, si stabilisce che la vigilanza e il controllo sugli atti del Consorzio industriale di Frosinone spetta al Comitato regionale di controllo (ex in. 130 della C.), in forza dell’art. 61 della L. 10/02/53, n. 62.
(art. 130 della Costituzione: Un organo della Regione, costituito nei modi stabiliti da legge della Repubblica, esercita, anche in forma decentrata, il controllo di legittimità sugli atti delle Province, dei Comuni e degli altri enti locali. In casi determinati dalla legge può essere esercitato il controllo di merito, nella forma di richiesta motivata agli enti deliberanti di riesaminare la loro deliberazione.)
Questa tesi si basa su due argomenti: da un lato i Consorzi industriali vengono identificati con i “Consorzi amministrativi territoriali formati da Comuni e Province previsti dalla legge comunale e provinciale”, anche se dotati di caratteristiche loro proprie. A questi, pertanto, si applica l’art. 61 della L. n. 62/53, che include tra i Consorzi di Comuni e di Province anche i Consorzi cui partecipano, oltre a questi Enti territoriali, anche Enti a base non territoriale, in conformità della previsione dell’art. 172 R. D. 3 Marzo 1934, n. 383.
Dall’altro punto di vista, si afferma nella decisione che “l’intera disciplina del controllo regionale sugli atti degli Enti sub-regionali è finalizzata con riguardo alla località e non alla territorialità degli Enti stessi”.
Sempre secondo il Consiglio di Stato, “Non vi è dubbio che i Consorzi di sviluppo siano enti locali, anche sotto questo profilo deve convenirsi che non si può negare, ma debba conformarsi, l’applicabilità dell’art. 61 della legge nei confronti di d Consorzi”.
Circa la pretesa competenza dei Consorzi A.S.I. a quelli fra enti territoriali, si fa notare in dottrina che tra queste due figure esiste una differenza molto accentuata. Inizialmente i Consorzi industriali erano sottoposti alla vigilanza e alla tutela da Ministero dell’industria e Commercio, in conformità dell’u.c. dell’art. 21, L. 634/57, modificato dall’art. 8 della L. n. 555/59.
AI predetto dicastero venivano trasmessi per l’esercizio dei compiti sopraindicati, le deliberazioni del Consiglio Generale e del Comitato Direttivo, nonché il bilancio di previsione e il rendiconto consuntivo.
Non vale pertanto per i Consorzi industriali, l’art. 165, T.U., Com. Prov., 1934, secondo cui la “vigilanza e la tutela (...) nei riguardi dei Consorzi, sono esercitate, rispettivamente, dal Prefetto e dalla Giunta Provinciale Amministrativa”.
Solo nel 1971, con la legge 6 Ottobre, n°853, all’art. 4, sono state trasferite alle Regioni: “le attribuzioni di competenza (...) del Ministero dell’industria (...) relative ai Consorzi per le aree e i nuclei di sviluppo industriale”, e i poteri di vigilanza e tutela.
Stabilito che il controllo sugli atti degli enti infraregionali spetta alle Regioni, bisognerà individuare l’organo regionale che, in concreto dovrà esercitarlo.
Il Consiglio di Stato ha ribadito, nella prima decisione, il carattere della “località”dei Consorzi industriali e, indirettamente, li ha ricompresi nella figura di quegli “altri enti locali” espressamente previsti dall’art. 130 C.
Il significato da attribuire all’espressione “altri enti locali” è, tuttora, molto controverso; soprattutto in dottrina. Secondo una prima tesi, più restrittiva, “per altri enti locali” si devono intendere esclusivamente gli enti a base territoriale e a struttura democratica diversi dai Comuni e dalle Province: pertanto i Consorzi tra enti territoriali, le Comunità montane, i Comprensori ove siano strutturali a base territoriale e con organizzazione rappresentativa.
Tale tesi si basa sull’esigenza, evidente nel tessuto costituzionale, di tenere distinto, sul piano dell’autonomia (e della garanzia costituzionale medesima) i Comuni, le Province e gli enti associativi di Comuni e Province da tutti gli altri enti locali che, diversissimi per struttura, finzioni e natura giuridica, possono apparentarsi fra loro soltanto per il carattere (estrinseco e poco significativo sul piano giuridico) locale.
Non avrebbe senso, secondo tale tesi, estendere la garanzia dell’art. 130 C. a tutti gli enti locali, parificandoli nel trattamento del controllo a Comuni e Province, quando solo per questi, (e non per altri) la Costituzione, agli artt., 5, 114 e 128 prevede un regime garantito di autonomia, giungendo ad affermare solennemente che: “la Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni”.
Una tesi, più estensiva, ricomprende nella espressione “altri enti locali” tutti gli enti di rilievo locale, anche quelli che non hanno base territoriale, e struttura democratica nemmeno di secondo grado. Tale tesi, interpretando, in modo pregnante, l’art. 130, arriva a sostenere che è proprio tale articolo che garantisce sul piano costituzionale l’autonomia di qualsiasi altro ente locale, tanto nei confronti dello Stato, quanto nei confronti della Regione; e ne deduce che il deferimento dal controllo all’organo previsto dall’art. 130 C., è uno degli aspetti, anzi, l’aspetto essenziale della garanzia costituzionale dell’autonomia dei tali enti
Alcune Regioni hanno disciplinato con legge la competenza ad esercitare la vigilanza ed il controllo sugli atti dei Consorzi industriali. La Regione Basilicata, ad esempio, ha stabilito che le funzioni esercitate dal Ministero dell’industria siano esercitate dalla Giunta regionale( L.R. 4 Maggio, 1973, n°10).
La Regione Abruzzo ha istituito un’apposita commissione per la vigilanza e la sugli atti dei Consorzi, composta in modo profondamente diverso dall’organo parla l’art. 130 C.
Molte leggi regionali affidano al Comitato regionale e alle sezioni provinciali rispettivamente. il controllo sugli atti dei “Consorzi con partecipazione delle Province” e dei “Consorzi ai quali partecipano i Comuni”.
Si può rilevare pertanto, che non ci sarebbe alcuna ragione per escludere da tali competenze gli atti dei Consorzi Industriali, i quali, pur non essendo consorzi tra soli enti territoriali, sono pur sempre consorzi cui partecipano Comuni e Province. Di conseguenza il controllo sugli atti dei Consorzi industriali spetta all’organo di cui all’art. 130 C., non in forza dell’art. 61, ma delle apposite leggi regionali.
La Regione Lazio, con l’art. 3, L.R. 20/12/78, n°74, ha stabilito che il Comitato regionale eserciti il controllo sugli atti degli altri enti dei consorzi ai quali partecipano le Province e le sezioni decentrate esercitino il controllo sugli atti dei Consorzi tra Comuni. Al Comitato e alle sezioni, questa legge ha ancora rinviato il controllo sugli atti rispettivamente “degli altri enti locali a livello sub-provinciale”.
Regione Sardegna, invece, ha disciplinato il controllo sugli atti dei Consorzi per le aree e i nuclei di industrializzazione, con la L.R. 23/10/78, n. 62, (al capo VI° e ai Consorzi per le aree e i nuclei di sviluppo industriale, istituiti ai sensi delle leggi per il Mezzogiorno, agli artt. 38, 39 e 40), sottoponendo al controllo del CO.RE.CO. (Comitato regionale di controllo), le deliberazioni concernenti i seguenti oggetti: a) Bilanci preventivi; b) Regolamenti dei servizi; c) Regolamenti sullo stato giuridico ed il trattamento economico del personale, tabelle organiche; d) Assunzione, sotto qualsiasi forma, di personale non di ruolo.
E al controllo del CO.CI.CO. (Comitato circoscrizionale di controllo), tutte le altre deliberazioni (circa i contratti, regolamenti, impegni, spese, ecc...).
Mentre le deliberazioni relative alle modifiche dello Statuto e l’ammissione nel Consorzio di nuovi Enti, pur restando fermi i controlli di legittimità e di merito, vengono demandati alla competenza della Giunta regionale, su proposta dell’Assessorato all’industria.
Inoltre restano attribuite, salva altra disposizione di legge, al Presidente della Giunta regionale e all’Assessorato dell’industria, la vigilanza, l’amministrazione attiva ed il controllo sugli organi.
Ne consegue che spetta all’organo di controllo previsto dall’art. 130 C. ogni potere di vigilanza spettante alla Regione e perciò, secondo questa tesi, gli atti dei Consorzi vanno sottoposti, a seguito di questa legge regionale, al controllo del Comitato o delle sezioni decentrate.
I Consorzi industriali sono sottoposti al controllo dell’organo di cui all’art. 130 C., in base alle leggi regionali e non in base all’art. 61 della legge Scelba.
Questo significa che l’estensione, le forme e gli effetti del controllo non sono quelli previsti nella legge Scelba, ma quelli già spettanti al Ministero dell’Industria.
Di qui l’insostenibilità di un controllo più penetrante o addirittura dell’ingerenza della Regione nell’amministrazione dei Consorzi industriali.
Si presenta, infine, un’altra ipotesi, che si realizza quando le Regioni non abbiano legiferato sugli organi di controllo di cui all’art. 130 C. o comunque non abbiano disposto nulla sulla loro competenza.
Allora è d’obbligo il riferimento alla L. n. 853/71, che trasferisce alle Regioni i poteri di vigilanza e di controllo sugli atti dei Consorzi industriali, senza individuare, peraltro, l’organo regionale cui spettano tali poteri. I Consorzi industriali, indubbiamente, assumono posizioni distinte verso lo Stato e la Regione.
Il legislatore, però, non ha specificato l’ampiezza delle competenze legislative e amministrative regionali nei confronti dei Consorzi Industriali. Nemmeno l’art. 65, del D.P.R. 24/07/77, n. 616, ha chiarito bene gli aspetti del problema.
Il legislatore delegato, però, non ha inteso inserire i Consorzi Industriali nella categoria degli “enti amministrativi dipendenti dalle Regioni”. Infatti, l’art. 13, del citato decreto riconosce alle Regioni, con riferimento a questi ultimi enti “le finzioni legislative e amministrative riguardanti l’istituzione, i controlli, la fusione, la soppressione e l’estinzione”.
C’è da aggiungere, poi, che i Consorzi Industriali operano nelle materie dell’Urbanistica e dello sviluppo industriale. La prima ricade nella competenza regionale; la seconda, viceversa, è propria dello Stato.
Essi, pertanto, non possono essere considerati “enti pubblici locali operanti nelle materie di spettanza regionale”, come il citato articolo 13 definisce gli enti amministrativi dipendenti dalle Regioni.
In base all’argomento utilizzato dal Consiglio di Stato, si può affermare che i Consorzi industriali sono principalmente consorzi tra enti territoriali. La base territoriale non sembra elemento sufficiente per far rientrare i Consorzi nel novero dell’art. 130 C., quali “Enti locali” in senso rigoroso. E’ determinante, ai fini che qui interessano, il profilo funzionale, infatti i Consorzi operano in una materia (l’industria) che è rimasta di competenza statale.
Per quest’ultimo, rilievo si fa notare che: “la mancanza di una generale competenza delle Regioni nella materia nella quale i Consorzi operano, deve riportare ad interpretare restrittivamente i poteri che le Regioni medesime possono esercitare nei confronti ditali enti. E, per quanto riguarda il controllo, si deve ritenere che esso possa essere esercitato soltanto nelle forme e con le garanzie che il legislatore costituzionale ha ritenuto compatibile con la salvaguardia dell’autonomia degli Enti che non sono dipendenti dalle Regioni”
Con la decisione del 27/09/79, n. 738, Sez. IV°, il Consiglio di Stato mutava completamente opinione e stabiliva che il controllo sugli atti dei Consorzi Industriali non spettava più al Co.Re.Co., bensì agli organi di amministrazione attiva della regione, a loro volta sottoposti al controllo della Commissione statale di cui all’art. 125 della Costituzione.
Questo orientamento viene condiviso anche da talune interpretazioni dottrinali che sottolineano per i Consorzi Industriali la natura giuridica di enti amministrativi dipendenti dalle Regioni
Sono considerati enti pararegionali e non rientrano fra gli “altri enti locali” di cui all’art 130 C.
Si fa notare inoltre, che: “per loro la Costituzione non prescrive che il controllo sugli atti sia effettuato ad opera dei Comitati regionali di controllo, e che tale esercizio sia effettuato nei modi e nei limiti (quanto al controllo di merito) indicati dal predetto articolo.
I limiti stabiliti dall’art. 130 C. al controllo dei Comuni, Province ed altri enti locali traggono la loro giustificazione dalla autonomia politica ditali enti.
“Una specifica posizione di autonomia deve ritenersi garantita non solo agli enti territoriali minori (Comuni e Province), ma anche a tutte quelle altre forme associative che delle prime costituiscono diretta proiezione (Corte Cost. 28/11/1972, n. 164; Corte Cost. 26/06/l 974, n. 186); concetto, questo, che è stato poi precisato dalla dottrina nel senso che è il carattere esponenziale dell’Ente e quindi la sua attitudine istituzionale ad esprimere le istanze del corpo sociale cui è legato da un rapporto di rappresentatività fiduciaria (diretta o indiretta) ciò che ne rende rilevante l’azione sulla base di autonome scelte politiche”.
La anzidetta giustificazione non sussiste nei riguardi degli enti pararegionali per quanto attiene alla relazione di dipendenza con l’ente maggiore; i poteri di direzione, autorizzazione, ispezione, controllo repressivo, sostituzione, ecc… dell’ente “maggiore” sull’ente da esso dipendente non incontrano alcun limite costituzionale.
Ciò vale ovviamente anche per i poteri spettanti dapprima al “Ministero dell’industria ed ora alle Regioni sui Consorzi….“.
Contro la pretesa natura di “ente locale” attribuita al Consorzio e il conseguente controllo dei suoi atti da parte del Co.Re.Co., in dottrina emergono altri rilievi.
Infatti: “Per affermare che un determinato Consorzio deriva il suo carattere di autonomia degli enti territoriali in esso consorziati, occorrerebbe dimostrare che tale Consorzio è stato costituito dalla legislazione appunto come “derivazione diretta” di quegli enti territoriali, concorrerebbe, cioè, a dimostrare che il fine in finzione del quale il Consorzio è stato ideato è visto come derivazione di un fine proprio degli enti territoriali consorziati e che l’interesse della sua creazione mira a soddisfare immediatamente e direttamente un interesse di tali enti (...).
Nel caso dei Consorzi A.S.I. non siamo in presenza di enti dotati di un grado di autonomia tale da poterli ascrivere alla categoria degli enti locali, ma si tratta di enti di servizi ausiliari della Cassa per il Mezzogiorno, e quindi dello Stato, fino alla legge n. 853/71, ed ora ausiliari tanto dello Stato quanto della Regione “.
Ai fini della individuazione dell’organo di controllo, sempre in dottrina, emerge un’altra posizione contraria alla tesi che considera i Consorzi sullo stesso piano degli enti locali.
Prima di illustrare brevemente i rilievi critici da quest’ultima espressi, sembra opportuno riportare alcuni passi della circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri circa l’esatta individuazione dell’organo di controllo “Per quanto riguarda il trasferimento delle funzioni di vigilanza esercitate dal Ministero dell’Industria. non si ritiene applicabile al riguardo l’art. 61 della L. 10/02/53, n. 60, che si riferisce ai Consorzi tipici di Comuni e Province, tra i quali non sono compresi quelli in esame aventi natura mista; inoltre la devoluzione del controllo ai Comitati mal si concilierebbe con quelle esigenze che hanno finora richiesto l’intervento, a tal fine, di un organo centralizzato dello Stato, nel quale potessero confluire i rappresentanti di varie amministrazioni interessate. Si potrebbe anzi soggiungere che la specialità di tale controllo (non ricadente nell’ambito di applicazione dell’art. 130 C., in quanto i Consorzi in esame non possono essere assimilabili nella categoria di “enti locali” nel senso voluto da questa norma), concreti un principio della legislazione statale che le Regioni devono tener presente nella emanazione delle suddetta normativa”.
Il primo rilievo che emerge dalla tesi poc’anzi accennata riguarda innanzitutto la legislazione. Infatti, in base alla legislazione vigente: “Le Regioni sono chiamate dall’art. 50 del D.p.r. n°218/78….ad esercitare la vigilanza e la tutela sui Consorzi industriali; tale legislazione è, pertanto, la stessa su cui si fondava il controllo ordinario del Ministero dell’industria e Commercio e non quella su cui si prevedeva il controllo del Prefetto e delle G.P.A. sugli atti degli Enti locali territoriali, modificata dalla L. n°60/53”.
Il secondo rilievo trae spunto dalla sentenza della Corte Costituzionale (n. 178/73) che contrappone gli “ Enti democratici” agli “Enti funzionali”.
Questi ultimi devono ritenersi soggetti ai poteri di supremazia della Regione che ha facoltà di incidere sul loro ordinamento, sulla loro attività e sul sistema dei controlli relativi ad essi.
Gli “ Enti democratici” “sono soggetti ad una particolare tutela costituzionale, sottratta alla competenza regionale, mentre quelli “funzionali” operanti nelle materie di competenza regionale nei confronti dei quali i poteri di supremazia dell’Ente Regione e la potestà legislativa sono pieni tanto in ordine ai controlli quanto alla struttura e all’attività, salvi s’intende i principi generali(…)“
E’ secondo questi criteri che va letto l’art. 65 del D.P.R. n°616/77, da cui emerge con evidenza la natura dei Consorzi Industriali quali “Enti di diritto pubblico locali” con funzioni strumentali-funzionali rispetto alla regione
Sempre secondo questa tesi, gli organi politici della Regione esercitano un controllo di efficienza sull’attività dei Consorzi ed un controllo di merito urbanistico sui loro a piani regolatori.
Su queste tesi, sentenze e convinzioni, si è basata fino a qualche tempo fa, l’impalcatura legislativa del sistema dei controlli applicabile ai Consorzi di sviluppo industriale.
Precisamente fino alla emanazione delle seguenti leggi: La legge n°317/91, che all’art. 36, IV comma, recita: “I Consorzi di sviluppo industriale, costituitosi ai sensi della vigente legislazione nazionale e regionale, sono enti pubblici economici “.
Poi con il successivo (in ordine temporale), DL. N. 149/93, dove all’art. 2, XII comma, dispone: “Ai Consorzi, di cui al comma IV, si applica la normativa generale in materia di società per azioni. Il controllo regionale si esplica sui piani economici e finanziari“.
Per concludere, la L. n. 104/95, aggiunge al IV°comma dell’art. 36, L. 3 17/91, il seguente periodo: “Spetta alle Regioni soltanto il controllo sui piani economici e finanziari “, e abroga il comma XII, dell’art. 2, D.L. n. 149/93.
1.9.2 La vigilanza e la tutela
Il penultimo comma dell’art. 50 T.U. 06/03/78, n. 218, stabilisce che i Consorzi Industriali sono “sottoposti alla vigilanza e alla tutela delle regioni che le esercitano ai sensi della legislazione vigente”.
Secondo certe valutazioni dottrinali:[26] “Tale disposizione, che tiene conto anche dell’art. 65, D.P.R. n. 616/77, porta a confermare la tesi secondo la quale le potestà che le Regioni possono esercitare nei confronto dei Consorzi di sviluppo sono (oltre l’approvazione dei piani e l’approvazione degli statuti) sostanzialmente potestà di controllo, il cui ambito è per di più delimitato dalla legislazione statale, nell’ultimo comma dello stesso art. 50, contraddice tale conclusione”.
La vigilanza è stata meglio specificata dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione con il termine di sorveglianza. La vigilanza in senso stretto, invece, è un controllo formale di legittimità di atti amministrativi. Anche la sorveglianza si esplica con un controllo, ma ha per oggetto l’attività del controllato e per di più con modalità generiche. Essa: “si manifesta nel proporre ad autorità che ne hanno il potere l’adozione di determinate misure nei confronti del controllato, se il controllo è ad esito negativo”. E’ quindi una figura di controllo elementare, che può dirsi preliminare, perché non sbocca in una misura ma in un atto di denuncia.[27]
La tutela, invece, è un controllo formale di opportunità di atti. La denominazione è un residuo di tempi passati, allorché si riteneva che gli enti pubblici minori fossero da parificare agli incapaci e che perciò occorresse l’intervento, nei loro confronti, di un tutore che era lo Stato. La tutela è, oggi, un controllo limitato ad atti tassativamente elencati dalle norme (c.d. tassatività del controllo tutorio). Essa agisce sull’efficacia dell’atto da controllare, che l’atto non acquista se non è intervenuto il controllo positivo
Fatta questa breve premessa, sembra opportuno esaminare la natura e la disciplina della funzione di vigilanza e tutela già attribuita al Ministero dell’industria e ora in toto trasferita alle Regioni.
A questo proposito si fa rilevare che: “L’attività di controllo più che impedire all’ente controllato di “sbagliare” nel singolo atto, ossia di porre in essere un’azione (o inazione) amministrativa illegittima (o, nei casi di controllo di merito, inopportuna) è finalizzata alla cura di interessi pubblici più generali, riferibili ad una comunità di interessi per i quali il “centro d’imputazione” deve essere ravvisato nell’ente controllante.
In questo quadro si affievolisce e scompare la contrapposizione, non fittizia ma prevalentemente formale, tra amministrazione attiva e controllo; le norme attributive di poteri di “vigilanza e tutela” assumono significati più pieni, implicando:
a) L’affidamento all’entità controllante del compito di curare come propri interessi pubblici esercitati dall’entità controllata;
b) Il riconoscimento all’autorità controllante di un ambito di attribuzioni che include la sfera delle attribuzioni dell’entità controllata per modo che quest’ultimo non è separato dal primo ma ne fa parte integrante;
c) Il conferimento all’entità controllante di poteri di “ingerenza” nell’attività amministrativa dell’entità controllata, i quali si traducono in poteri di cogestione seppur ovviamente esercitati secondo modalità particolari proprie dell’attività di controllo.
In altri termini, secondo questa interpretazione, l’attività di controllo sarebbe attività amministrativa nè più nè meno dell’attività sottoposta a controllo.
L’attività di vigilanza e di tutela sarebbe identica, così come quella esercitata dallo Stato sugli enti “strumentali” ad esso facenti capo.
Anche gli atti, come le autorizzazioni, le opportunità, gli annullamenti, e le sostituzioni nei quali si esprime la vigilanza e la tutela sarebbero atti di amministrazione, sottoposti al normale regime di tutti gli atti della Regione. Sarebbe questa una conclusione obbligata: dal momento che le Regioni, mediante il ricorso a formule organizzative, non possono sottrarre ambiti della loro attività al controllo statale previsto dall’art. 125 C.; ritenere diversamente condurrebbe a fare dell’attività degli enti amministrativi dipendenti una sorta di zona franca, di oasi privilegiata, in contrasto con i postulati di completezza ed organicità dell’ordinamento.
Per cui i Consorzi di sviluppo industriale, appare evidente che, nei loro confronti, le funzioni di vigilanza e tutela come quelle di indirizzo e di coordinamento siano di competenza degli organi statutari, e cioè della Giunta e del Consiglio Regionale secondo il riparto di competenze stabilito dalle disposizioni statutarie.
I NUCLEI INDUSTRIALI SUL TERRITORIO NAZIONALE
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[1] V.G.PESCATORE, L’intervento straordinario nel Mezzogiorno d’italia, Milano, 1962
[2] DE RITA, COLLIDA’, BARABBA, Il Meridionalismo in crisi?, Milano, 1966.
[3] V.G.AMATO, Il Governo dell’industria in Italia, Bologna 1972
[4] Cfr.BARCELLONA, Democrazia e Diritto, nel saggio Legislazione e stratificazione sociale, n. 3, 1975
[5] V.A.YOUNG, Increasing retourns and economic progress, in Economic Journal 1928
[6] V.DI GIOACCHINO, La politica edilizia negli anni ’60, in quaderni di rassegna sindacale, n°43, 1973
[7] Cfr.AA.VV. Aree attrezzate e servizi alla produzione nello sviluppo del Mezzogiorno, Formez, Napoli, 1989.
[8] V.G.FALZONE, Le zone industriali, Palermo, 1962
[9] Cfr.M.ANNESI. Aspetti giuridici della disciplina degli interventi nel Mezzogiorno, Roma, 1966
[10] F.TERESI, Le aree industriali nella legislazione statale e regionale e nel sistema d’intervento pubblico, in Foro Amministrativo, 1979, Pag. 1418
[11] Cfr.S.SCARANTINO, I Comprensori di sviluppo industriale, programmazione economica e assetto del territorio, Milano 1971
[12] V.V.GIOVANNELLI e P.CALANDRA, Problemi giuridici dei Consorzi di sviluppo industriale nel Mezzogiorno, Milano 1966
[13] V.SERNINI, Critica del diritto, n°4, 1975
[14] Cfr.FERRARI-BRAVO, Stato e sottosviluppo, Milano 1972
[15] Cfr.Guida per i Consorzi per le aree e i nuclei di industrializzazione nel Mezzogiorno, Roma 1969
[16] Cfr.G.PASTORE, I lavoratori dello Stato, Firenze 1963
[17] Cfr.MD’ANTONIO e V.PARLATO, Cronache Meridionali, 1963
[18] Cfr.CHIARIMONTE, Un piano per il Mezzogiorno
[19] Cfr.G.AMATO,Il governo dell’industria in Italia, Bologna 1972
[20] V.TOZZI, Intervento pubblico e industrializzazione del Mezzogiorno, Roma
[21] V.G.DI GIANDOMENICO, Consorzi industriali per lo sviluppo del Mezzogiorno, Napoli 1973, Pag. 6
[22] Cfr.S.SCARANTINO, I Comprensori di sviluppo industriale, programmazione economica e assetto del territorio, Milano 1971, Pag. 21
[23] Cfr.E.POLITO, L’ordinamento tributario italiano, Milano 1978
[24] V.S.STRIANO, Problematiche fiscali dei Consorzi delle aree d’industrializzazione, 1979
[25] Cfr.E.PALAZZOLO, Economia e Credito, 1978, n. 2, pag. 520
[26] Cfr.G.SCOCA, Commento alla sentenza del Consiglio di Stato, N. 783/79
[27] V.M.S.GIANNINI, Istituzioni di Diritto Amministrativo, Milano 1981, pag. 49